Biografia

Marisa Marconi nasce a Grottammare il 24 giugno del 1956, in estate, con il caldo, le voci, le luci, i colori di una piccola città dove fioriscono, crescono e maturano arance e limoni: questione di microclima, come si direbbe oggi. Grottammare è la città di Pericle Fazzini, lo “scultore del vento”, come lo definì Giuseppe Ungaretti, l'artista realizzatore della “Resurrezione”, scultura che, posta nel 1977 nella sala Nervi del Vaticano, quella delle udienze papali, è sicuramente l'opera scultorea più vista al mondo. Certo, l'essere nata nello stesso paese di Pericle Fazzini altro non è che una coincidenza, come una coincidenza è quella di aver respirato da subito la stessa aria del grande scultore marchigiano. Ma a volte le coincidenze rispondono agli strani disegni del fato, quelli che impercettibilmente danno il via a esistenze altrimenti diverse. Poi, a unire la Marconi a Fazzini è lo stesso amore per il mare, del quale Marisa dice: “... Mi piaceva osservarlo in tutte le stagioni, quando la superficie era calma e liscia, quando era inquieto e burrascoso e il cielo era cupo. Una barca, una nave che vedevo passare, i pescatori che ritiravano le reti sulla spiaggia piene di pesci. Poi, al di là della strada, c'era la terra meravigliosa, la vegetazione assortita, i campi d'autunno lavorati dalla forza dell'uomo. Era il mio mondo incantato. I miei sogni tra cielo e mare, i viaggi della mente, dove incontravo forme fantastiche che ho portato con me”.
Eccole le forme del mondo incantato che la ragazzina Marisa Marconi si porterà appresso per l'intera esistenza, non solo quella artistica. Alle elementari è la più brava della classe... in disegno. Voti altissimi e giudizio unanime dei maestri: “La Marconi diventerà un'artista”. Il disegno, i colori, il poter fissare sulla carta personaggi inventati, storie tutte sue, alberi e fiori, il mare e gli scogli, è la sua passione e approfitta di ogni momento, fuori e dentro le ore di studio, per sporcarsi le mani con i pastelli e gli acquerelli, le cere e le tempere. Peccato però che il suo amore per l'arte non abbia altri estimatori, soprattutto in famiglia. Ma è alle scuole medie che frequenta a Ripatransone, che Marisa Marconi cerca di dare una definizione, un nome, al suo amore per l'arte. L'insegnante è Primo Angellotti, pittore conosciuto e stimato dalle sue parti, il primo artista vero incontrato nell'ordinarietà quotidiana. È lui che dice agli alunni “interpretate”. È lui che porta in classe gli oggetti da riprodurre o, meglio, da “interpretare”, metodo che farà dire fra sé e sé a Marisa Marconi: “Ma perché mi mostri un oggetto e mi dici di interpretarlo? Che bisogno c'è di mostrarmi una mela? Dimmi 'mela' e io la interpreto”. Il professor Angellotti è molto bravo nella tecnica della spatola e i ragazzi, quasi a volerne imitare lo stile, iniziano a usarla anche loro. All'alunna Marconi però, quella tecnica non piace. Pur non sapendo ancora dove andrà a parare, trova la spatola uno strumento rigido, troppo “strutturato”, poco adatto per volare e, soprattutto, per dare un senso alla sua visione della vita. Impossibile raccontare storie con una spatola, figuriamoci narrare una favola. Anche alle scuole medie, i voti migliori Marisa Marconi li riporta in “arte” e da qui, dalla constatazione che “ci sa fare”, matura le sue decisioni e partono i sogni.
Adolescente, appena ottenuto il diploma di terza media, fantastica infatti di entrare all'Accademia di Brera. La Milano di quegli anni è una città esplosiva, ancora più di Roma dove l'arte si fa mercato e iniziano a entrare in scena sponsor politici di ogni ordine e grado. Milano è la città dello studio e delle sperimentazioni ardite. Essendo la città più “europea” d'Italia, la capitale lombarda recepisce tutti i fermenti provenienti dalla Francia ma soprattutto dalla Gran Bretagna e dall'America. Brera, e la sua famosissima Accademia, è dunque il centro di questo mondo compreso fra il classico da studiare e il nuovo che avanza prepotente scardinando schemi e impostazioni. Per i ragazzi di allora, sensibili all'arte e vogliosi di farla, Brera rappresenta il sogno anche se poi c'è la realtà. E la realtà di Marisa Marconi parla di un tentativo di iscrizione all'Istituto d'arte di Ascoli Piceno abortito sul nascere: prova ma non sopporta la “rigidità” del collegio che la ospita, la suddivisione in gruppi, gli schemi prefissati e le regole scritte sulla pietra come i Dieci Comandamenti. Si sente molto Benoît Misère in gonna blu e calzettoni bianchi, ma Léo Ferré è ancora lungo da venire. Il problema era che abitando a Grottammare, ogni giorno avrebbe dovuto prendere l'autobus per andare ad Ascoli Piceno. Un po' l'educazione familiare portatrice di paure ataviche, un po' il doversi sottoporre a un tour de force debilitante, la scelta del collegio era sembrata la meno faticosa e, per i familiari, la più tranquilla. Invece Marisa Marconi decise diversamente e smise i suoi sogni accademico-artistici per andarsi a sedere sui banchi della scuola per segretarie d'azienda di Cupramarittima. Fatto però che non comportò il taglio netto con il mondo dell'arte perché, con la sua Yashica Mat 124 e la guida di Walter Novelli, incontrò un'altra sua grandissima passione: la fotografia.
È primavera, quella del 1974, quando incontra per la prima volta Vittorio Amadio, un uomo più grande di lei (di età), artista bohemienne dall'aria vagamente ascetica e perfettamente in linea esistenziale con i suoi “colleghi” maledetti di quel periodo. Colpo di fulmine immediato, senza appello, una di quelle strane storie di “chimica” che nasce per caso e dura una vita. Complicatissimo il rapporto fra i due, reso ancora più difficile dalla non accettazione della famiglia della Marconi di quel tipo strano che andava in giro su automobili dipinte da lui e conduceva un'esistenza non inquadrabile nei precetti francescani. Ma omnia vicit amor, e la futura artista Marisa Marconi si ritrova incinta e impossibilitata a sostenere l'esame di terzo anno della scuola per segretarie d'azienda. Con una bambina a carico, una storia ancora piena di problemi con Vittorio Amadio e l'esigenza di avere uno stipendio, Marisa Marconi continua a lavorare nell'hotel di famiglia. Lo fa senza mai lamentarsi e in attesa che la sua esistenza prenda la direzione voluta, quella di andare a vivere finalmente, alla luce del sole, con Vittorio Amadio. A ventiquattro anni, ancora una volta contro tutto e tutti, consapevole delle sue scelte, Marisa Marconi esce dalla porta di casa “dove non tornerò mai più”, dice oggi senza rimpianti e con una fierezza negli occhi che denota l'estrema soddisfazione di un gesto tanto inusuale da apparire rivoluzionario. Evidentemente anche lei è inquadrabile nella categoria degli “anarchici dell'amore”, e quindi se ne va di casa con sua figlia in braccio e una valigia.
Vittorio Amadio è davvero un personaggio “profetico”. Anche lui privo di retroterra accademici, libero mentalmente e tecnicamente, sempre proiettato alla scoperta del domani senza mai guardarsi indietro, diventa la prima “guida” artistica di Marisa Marconi che, con grande umiltà, decide di mettersi a “studiare” arte direttamente dagli artisti, una specie di apprendistato da bottega che le consentirà di dotarsi di un bagaglio di conoscenze altrimenti improponibile, soprattutto nelle aule delle accademie dove gli schemi la fanno da padroni e la creatività è tenuta a freno dai dogmi estetici.
Il loro matrimonio aprirà la strada a un sodalizio e a un giro di frequentazioni artistiche estremamente interessanti in Italia e all'estero. Entrano nelle sue cerchie Mastroianni, Fazzini, Cremonese, Peschi, Craia, Masciarelli, gli spagnoli Albert Casals, Joaquim Pujol Grau, Josep M. Subirachs e il giapponese Ogata, che diventeranno subito persone da stare ad ascoltare prima di decidersi a parlare e soprattutto a scolpire e dipingere, mentre inizia a frequentare la Stamperia dell'Arancio di Riccardo Lupo. Sullo sfondo, l'ambiente artistico ascolano nel quale spiccano Diego Pierpaoli, Augusto Piccioni, Nazzareno Luzi, Alfio Ortenzi, Igino Stella, Luciana Nespeca, Arnaldo Marcolini, Franco Testa, Ettore Tavoletti, Gaetano Carboni, Giuliano Giuliani, Marcello Lucadei, Marisa Korzemiecki, la Galleria Rosati e molti altri personaggi che formano un gruppo eterogeneo di estrosità e di genialità al limite del bizzarro.
Nessuno degli artisti che Marisa Marconi incontra e frequenta è uguale all'altro. Ognuno ha una sua personale “via dell'arte” e tutti insieme formano un intrico di strade difficile non solo da seguire ma anche da capire. Inizia a maturare la convinzione che la sua arte dovrà essere diversa. Lei ama la leggerezza ma nello stesso tempo, inizia ad apprezzare la complessità dei temi e dei fatti quotidiani. Marisa Marconi non si lascia scalfire da nessun avvenimento. Guarda alla cose del mondo con la curiosità di chi tenta di tenere i drammi lontani da sé ma dei quali non può fare a meno di interessarsi. Il nero diventa il fondo strutturale delle sue opere mentre il bianco, quasi evanescente, ma in grado di tracciare trame di vita e plot di film, è la base sulla quale innesta la sua narrazione. E il lavoro quasi miniaturale che riesce a fare prima con una cannuccia poi con l'aerografo, diventa l'histoire de vie e des femmes, una dimensione nella quale sono i particolari infinitamente sottili e leggeri a dettare il ritmo di un narrato ricco e variegato che ha al centro l'uomo-essere vivente, con tutte le dimensioni e le contraddizioni che il dato distintivo del “pensiero” si porta appresso. Ma prima di raggiungere la sua piena maturazione artistica, espressiva e di stile, negli anni '70 la Marconi presenta le sue prime opere d'ispirazione realistico-figurativo, dipinti che mirano a riflettere lo stato mentale dell'artista piuttosto che la realtà del mondo esterno. Queste opere propongono immagini profondamente morali e mai figure femminili deluse, angosciate, disprezzate. Si capisce che la strada è quella giusta. Qualche critico inizia a parlare del suo lavoro ma è ancora “arte in fieri”, “trame in itinere”. Dovrà aspettare, prima di presentarsi ufficialmente al pubblico con una “personale”, il 1985 quando, presso la Galleria “La sfinge” di Palazzo Malaspina ad Ascoli Piceno, propone una originale mostra d'arte. Sono opere di grandi dimensioni, denominate “Tracce e presenze”, in cui l'artista, interpretando la figura della sacerdotessa romana, custodisce il fuoco sacro di “Vesta”. Pittura d'astrazione in cui utilizza la sua personale e particolare tecnica. Significative di questa rassegna d'arte sono i dipinti intitolati “Sudario”; opere evocative in cui, su di uno sfondo telato, appaiono figure sfrangiate in tinte policrome. Il tutto raffigurato in una strana atmosfera impalpabile in cui i veli omerali e virginali sembrano muoversi tra le pieghe. Il corpo di una vergine richiama, per la forma dell'althanor, la matrice dell'opera alchemica. Turbamento soggettivo e trasporto affettivo insorgente da commiserazione, pietà, per il dolore altrui.
Le opere intitolate “Presenze”, invece, appaiono come una sorta di “testimonianze” eteree e trasparenti che, secondo la concezione della civiltà classica, sarebbero diffuse nelle zone più alte dello spazio celeste.
Cura poi, con sempre maggiore interesse, la scultura. Si appropria di tecniche e di stili, personalizza il suo “togliere” materiale invece di modellarlo, e pittura e scultura si fondono in un tutt'uno armonico che la portano a riprodurre anche (e perfino) la Statua di Sant'Emidio, protettore di Ascoli Piceno.
Marisa Marconi ama la scultura, la trova un mezzo espressivo potente che le offre l'opportunità di confrontarsi con quella tridimensionalità che le sarà di supporto anche nella sua accezione di pittrice. Scrive di Marisa Marconi scultrice Carlo Melloni nel 1989: “Nelle sculture lignee di Marisa Marconi il vigore espressionista della materia connotata si coniuga spesso al non detto, al non direttamente espresso ma tuttavia ugualmente leggibile. Nella storia della scultura l’esempio più noto è 'La pietà Rondanini', ma non essendo, nel caso della Marconi il tutto figurativo, la mèta da raggiungere, le figure che lentamente e a una insistita osservazione, emergono dalle fibre lignee assecondate dall’artista, sembrano persino 'trompe l’oeil'. Questo accade anche perché l’artista ha assimilato la tradizione classica che per quanto riguarda in particolare il rituale della 'Deposizione', si basa su un impianto iconografico ricorrente. Ma il suo linguaggio è anticlassico. Ne sono prove la compenetrazione dei corpi (si veda anche, a maggior evidenza, 'Bacio di Giuda'), come pathos e senso umano del possesso, e il considerare la materia soltanto l’elemento visibile e tangibile di un’idea o di una riflessione che appartengono al mondo della non materia”.
Da quel momento e fino al 1993, Marisa Marconi è protagonista di moltissime mostre “personali” e “collettive” di pittura e di scultura, in tutta Italia e, nel 1994, anche all'estero, a Trier, in Germania.
Sempre nel 1994, a Deruta, apprende le tecniche di lavorazione della ceramica. Due anni prima, nel 1992, aveva iniziato l’impegno di promozione di attività culturali insieme a Vittorio Amadio, contribuendo a far nascere l’Associazione Culturale “La Sfinge Malaspina” di Ascoli Piceno, dove nel vasto studio del Palazzo Malaspina riserva alcuni spazi per promuovere eventi a carattere nazionali ed internazionali nell’ambito delle arti visive, supportate da collaborazioni volontarie di artisti, critici, e amanti dell’arte.
Nel 1997, svolge attività e laboratorio di calcografia e serigrafia di sostegno per portatori di handicap, che si pone come un’occasione per sviluppare l’interesse alla dimensione artistica legata all’espressione e l’istinto creativo del vivere quotidiano. Ha varie esperienze di restauro: pittura e scultura. Esegue la copia in legno della statua di S. Emidio del Vannini, conservata presso il Duomo di Ascoli Piceno.
Nel 1999, nello studio d’arte che condivide con Vittorio Amadio negli U.S.A., dà vita all’Associazione Culturale “Creative Italian Art”. Nel 2001, si stabilisce definitivamente a Castel di Lama, nell’ex tabacchificio dove, dopo un attento restauro, fonda e coordina sempre insieme con Vittorio Amadio, “Arte on” Museo d’Arte Moderna/Contemporanea e laboratorio, per promuovere la cultura e il territorio locale in ambito nazionale ed internazionale.
Con il passare degli anni, la pittrice afferma il suo background culturale ed artistico e si sente pronta ad affrontare temi più impegnativi e profondi. Nell'anno 2003, presenta una mostra di pittura denominata “Le evanescenze gestuali di Marisa Marconi”. Nella rassegna, per rendere più poetiche e comunicative le sue opere, la pittrice-vestale adotta una peculiare tecnica di “pittura soffiata”: un accorgimento pratico e strumentale che le consente di creare sulla tela componimenti lirici e poetici. Si tratta di uno stile personale e distintivo, dove ogni elemento che compone l'opera nasce da un processo di “depositi di materia”, fatto di sottili atmosfere e situazioni psicologiche. Sedimentazioni materiche, di origine acrilica, impresse sulla tela da una sorta di “black-dust”, polvere in granelli corvini finissimi, soffiati con l'aerografo e diretti a proporre situazioni affettive in ambienti e circostanze particolari, forse reminiscenze di visioni oniriche ed ancestrali. Le raffigurazioni sono presentate con innata gestualità; le tele presentano una base pittorica monocroma molto scura e dal fondo nero del dipinto, poi, emergono raffinati e sublimati bagliori di colore luce. Squarci di luce intensa e riflessa che risplendono a tratti intermittenti, provocando nello spettatore desideri e stati d'animo sorprendenti. È una pittura evocativa, questa, che giunge direttamente al cuore degli uomini: portatrice di “bagliori di speranza” per la generazione del terzo millennio che già vede il chiarore di una nuova civiltà.
I componimenti proposti da Marisa Marconi, per la loro originalità, offrono dunque una pittura peculiare: una tematica che non ha movimenti o correnti di riferimento, se non per alcuni aspetti artistici e dimensionali riconducibili all'espressionismo astratto di Baselitz, Fautrier, Tobey, Kline e Mark Rothko.
Antonio Sorgente la definisce: “Una pittura animata dal cuore e vissuta all'ombra della luna”, ossia una novella concezione delle tinte brune, in cui il “colore” nero viene proposto come una positiva tinta “nobile” che ravviva la speranza degli uomini per un futuro migliore.
Donna, madre, moglie Marisa Marconi diventa anche giovanissima nonna. E grazie a questo nuovo stato anagrafico ma soprattutto mentale, riscopre candore e innocenza, e il suo fare pittura si trasforma sulla tela in un lacerante grido di libertà. La sua arte si fa ancora di più intima e, accanto a voli di fantasia inarrestabili, inizia a fare la comparsa una sensualità quasi erotica che la porta a definire ancora di più il suo stile e il suo pensiero. Marisa Marconi soffia poesie sulla tela, un vezzo e un gioco che le consentono di far volare tutti coloro che si accostano alla sua arte con sguardo attento e curioso e la mente sgombra da inutili sovrastrutture.

Le sue opere sono state recensite da numerosi critici italiani e stranieri quali: Carlo Melloni, Tonino Ticchiarelli, Claudio Felicetti, Giovanni Santori, Maria Stella Sguanci, Laura Melloni, Isabella Monti, BalthasaR, Gianluigi Gasparri, Floriano De Santi, Leo Strozzieri, Maria Augusta Baitello, Enzo Vitale, Giorgio Di Genova, Mauro Raponi, Marco Scatasta, Salvatore Di Bartolomeo, Ferruccio Battolini, Giancarlo Bassotti, Arnaldo Romani Brizzi, Sandro Pazzi, Armando Ginesi, Domenico Pupilli, Toni Toniato, Giovanni Prosperi, Silvio Craia, Eolo Costi, Carmine Benincasa, Luciano Roncalli Benedetti, Joan Lluìs Montané, Josep Maria Cadena, Lino Alviani, Eleonora Mancini, Roberta Ridolfi, Joaquim Pujol Grau, Mario Angel Marrodan, Mateo Barrueta, Marco Traini, Andrea Romoli.

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